BARCO E IL SUO CONCERTO

20 ottobre 2009

La storia del liscio è storia di tasselli, pezzi di un mosaico che ogni frazione rurale, ogni paese agricolo, ogni “castello” proletario compose. Ed è storia scritta spesso da appassionati, eruditi, protagonisti e testimoni locali, vincolati al ricordo non solo da reticoli familiari, ma dal debito più forte della memoria. E per alcuni di loro ha significato farsi testimoni pubblici di una memoria collettiva e generazionale che, tenacemente, ritorna sui suoi passi per consegnare al futuro le sue verità. L’esempio che segue, come tanti altri, è importante non solo perché fissa sulla carta informazioni preziose con le quali lo storico deve confrontarsi, ma anche perché tramanda il racconto collettivo di un paesaggio sonoro ormai lontano. Buona lettura.

Barco e il suo concerto

I. Le origíni

Barco, estate 1932.

Virgilio Carlesi, critico musicale del «Corriere della Sera», ferma la sua macchina accanto alla píazza per chiedere informazioni. Poco più tardi Palmiro Melioli, capo del concerto di Barco, se lo trova davanti alla porta pronto ad intervistarlo. Verso sera il giornalista, nella sala sovrastante l’osteria della Linda, sta ascoltando il concerto in alcune esecuzioni. Pochi giorni dopo il «Corriere della Sera» esce con un articolo a più colonne titolato Barco e il suo Concerto.

Parla di melodie stupende, parla di uno stile nuovo, parla di musica spontanea, eccezionalmente popolare e di una sorta di magia che da essa scaturisce.

E’ l’ultimo degli eventi che portarono al culmine grazie a questa sua musica, la notorietà di un piccolo Borgo di campagna di non più d’un migliaio di abitanti dediti all’agricoltura e a piccoli commerci, sulla piana reggiana della Val d’Enza.

La musica è sempre l’espressione del suo tempo e sempre riflette l’immagine del suo ambiente. Nei primitivi ha carattere magico e rituale. Tra i Greci entra nella vita sociale come educazione alla bellezza e all’armonia spirituale. Decade nella vecchia Roma e nel Medioevo assume carattere sacro. Dal XVII sec. al sec. XIX con il Melodramma diventa espressione di carattere popolare. Dal Melodramma all’Operetta la musica inizia ad alleggerirsi e questo modo di rendersi popolare si accentua con i grandi Valzer Viennesi. E qui si colloca la musica di Barco prima che inizi l’era della canzonetta. Ed è un anello di quella catena che rappresenta la vita e l’evoluzione della muusica. Verranno poi gli Spirituals e i Blues con i canti sommessi della gente di colore che aspira ad una vita libera.

Verrà il Rock sguaiato e provocatorio a contestare una vecchia e rigida morale corrente e trarrà a sé i disagi e le inquietudini di quel tempo, quello della guerra del Viet Nam. Verrà il Rock e porterà nella sua rumorosità il rombo del Jet, l’assordante rumore del traffico e lo straziante gracchiare degli altoparlanti.

Vediamo di ritornare a ritroso nel tempo sino a raggiungere le condizioni d’ambiente in cui il Concerto nasceva ed operava, per cercare di capire questa sua musica e il perché di questa sua musica. Proviamo ad immaginare Barco, settanta o ottanta anni fa, quando il passaggio di un’auto diventava avvenimento. S’udì il fischio della Reggio-Ciano solo nel 1911. Rimanevano nell’aria il canto degli uccelli, il verso delle galline sul cortile, il nitrire d’un cavallo e lo stridore del biroccio che trainava sulla strada ghiaiata. Però s’udiva il canto del contadino nei campi, o quello della lavandaia inginocchiata sulla sponda del canale e quello del ciabattino con il suo banchetto in strada a tirar lo spago. Oppure i cori a sera dei giovani che «facevano la vasca»lungo l’unica strada mal illuminata o quello della gente in cerchio sull’aia a spannocchiar granturco.

Immaginare tutto questo è un po’ difficile … anche perché ora non sappiamo più cantare.

2. 1 personaggi

Il Concerto da ballo di Barco, si va formando verso il 1892 e il suo tramonto coincide con l’inizio. dell’ultima guerra mondiale. 1 suoi primi elementi si accostano alla musica con il M’ Saccani di Montecchio. Sono tutti di Barco e si mettono insieme anche se la loro cultura musicale ha molti limiti, ma ognuno di loro continua con tenacia puntigliosa ad applicarsi per migliorarsi ed affinare la propria tecnica. Le prove si succedono ininterrottamente una dopo l’altra fino a a creare un complesso la cui notorietà si allarga ogni giorno di più. Il suo repertorio è formato unicamente da composizioni dei propri elementi. Palmiro Melioli è un capo concerto dal carisma spiccato. Ha nel portamento e nel tratto qualcosa di raffinato che lo eleva sugli altri.

E’ un poeta. Suona divinamente la tromba e nelle sue composizioni evidenzia più di ogni altro la provenienza di quella musica dal filone lirico. S’accompagna con la chitarra nel comporre l’armonia e i suoi pezzi aleggiano sempre di qualcosa di ricercato. Ama i classici e ama immergersi nella loro musica. La sua melodia è fine e classicheggiante e proprio per questo è meno immediata meno popolare di quella del suo braccio destro Cesare Panciroli. Tra Palmiro e Cesare sembra intercorrere lo stesso rapporto che esiste tra Wagner e Verdi. Il primo ha il gusto di una bellezza fine, ricercata e raffina. Nel secondo c’è il gusto della spontaneità, il gusto della bellezza immediata e popolare.

Tra le composizioni di Palmiro Melioli, «Alba» e «Pioggia di baci» emergono per la loro linearità, per la delicatezza delle loro frasi musicali. Da esse, scaturisce l’immagine di un armonioso mosaico. Il Valzer «Rocco» è forse la sua pagina musicale più bella. Vestito del piú gustoso classico, libera la sua melodia con la tromba e col trombone che si alternano poi in stupende variazioni, quasi come sfogo di una contenuta frenesia. Il contrappunto è affidato ai clarini, il controcanto ai baritonali e il tutto appare come un fraseggio armonioso e preciso, quasi arabesco di un manto regale.

Cesare Panciroli (Ceser Codùr) vuol fare il trombettiere. Quattro lezioni di Palmiro e una tromba che si porta con sè lo fanno entrare nella banda militare. Per la sua bella calligrafia viene messo a ricopiare musica. Questo lavoro lo porta a contatto con l’armonia che fa sua e che poi applicherà alle sue composizioni; lo farà sempre in modo molto semplice e leggero. Non è dato di sapere se questa sua attrazione alla semplicità sia data dal suo carattere o ne sia costretto dalla conoscenza piuttosto superficiale che ha di questa materia. Noi di permettiamo di propendere per la prima ipotesi. Il suo buon gusto e la sua fantasia sono tali che le sue composizioni sono caratterizzate da una immediatezza, da un spontaneità che le rendono estremamente popolari. Cesare ha un carattere mite e burlone, ha una comunicativa spontanea. Ha sulle labbra un sorriso appena accennato pronto ad allargarsi ad ogni occasione. L capace di una dolcezza disarmante.

Studia duro, migliora la sua tecnica ed eleva il suo grado di cultura musicale. Ma Ceser è sempre e solo sè stesso, compagno della sua fantasia e della sua esperienza. La sua melodia si libra nello spazio, ribelle e fantasiosa, guidata solo dalla sua anima.

Il controcanto e l’accompagnamento nelle sue composizioni sono semplici e leggeri quasi nel desiderio di non voler disturbare o condizionarne il canto. «Nice» è una sua mazurca dove la dolcezza è espressa come solo lui sapeva fare e,dove tutti gli strumenti sembrano fondersi in un gradevole insieme.

«Fiume» è forse il suo pezzo tecnicamente migliore, ed è un esempio di maturità e di buon gusto eccezionali. La sua melodia, nell’ampio respiro di un Valzer sale nell’aria come un sottile disegno dai contorni morbidi ad aspettare che le variazioni e il controcanto la raggiungano come in un fantastico sogno celeste.

«La lupa» è una Polca che se non può vantare in tecnica il primato delle sue composizioni, resta forse la più amorosamente ricordata sia per il ritmo, sia per la sua spregiudicatezza, sia per alcuni fatti a cui rimane legata. E’ un po’ come la regina buona o come la principessa dolce. Nacque negli anni ruggenti del concerto, quando ogni complesso musicale sceglieva un suo cavallo di battaglia tra alcuni pezzi di bravura usciti in quel tempo, come: «La spinite», «La Mazurca di Migliavacca», «La scabrosa», «L’usignolo», etc. Cesare compone «La Lupa». Quel nome stride un po’ con l’immagine che abbiamo del suo autore, ci sembra un po’ aggressivo, quasi cattivo. Ma noi pensiamo che quel nome, pur storcendo il naso, l’abbia voluto di proposito, proprio perché dovrà lottare con pezzi che sono già famosi e anche il nome doveva essere qualcosa che si imponeva. Un po’ come il pugile che sale sul ring e i-nostra gli occhi cattivi all’avversario per impressionarlo. Questa immagine di Cesare che si sforza per apparire un duro, ci fa tanta tenerezza. Ma Cesare è sempre sé stesso. E la «Lupa», anche nella carica del suo ritmo, pur nella vertigine delle sue magnifiche variazioni, non è mai aggressiva e mantiene intatta la sua vena melodica e il suo carattere popolare.

Luigi Mattioli (Gigin) è un altro dei compositori dei concerto. Suona mirabilmente il quartino al quale impone una dinamica particolare.

«Ernanuela», «Miraggio» e «Brunello» sono sue composizioni; in esse il brio resta la costante dominante.

Gli altri componenti del concerto, sempre della prima generazione, furono Giovanni Musatti col quartino, Dando Panciroli al basso; Donnino Fabbi, Giovanni Gilioli, Saturno Mattioli e Arturo Arduini erano gli accompagnamenti con i loro Genis.

Al Bombardino, Pirola Sartori. Al Trombone, Armano Caleri. Ai clarini Cerioli e Carlino. Al Contrabbasso Placido Gilioli e Cavecchi.

3. Le burle

La vita, entro il concerto, era un po’ quella di una comunità in cui, il carisma di un capo come Melioli ne garantiva il perfetto funzionamento. Il comune desiderio di fare sempre meglio li nutriva in un attaccamento solidale e responsabile. Ma c’era anche un’altra attrattiva forse più immediata che il concerto creava, ed era quell’aria burlesca, quel senso di buon umore, quella continua propensione a fare e ad accettare gli scherzi che in esso si viveva.

In fondo, questo rispecchiava molto del carattere di Barco, un paese un tantino ribelle, pronto alla contestazione verso tutto quello che poteva essere ritenuto imposizione, sopruso. Ma sempre pronto alla burla e alla canzonatura di tutto ciò che succedeva al suo interno. Un paese che sapeva ridere e sorridere di sè stesso e dei propri guai. Barco e il suo Concerto erano tutt’uno e ciò fece nascere la frase: «A Barco sono tutti suonatori … e gli altri musicisti»; era proprio questo sistema di vita che li integrava uno nell’altro. Le prove venivano fatte al Venerdì sera e quasi sempre in una sala dell’osteria della Linda. D’estate la gente si riversava nel cortile o si sedeva ai margini della strada, portando con sè sgabelli o panche ed ascoltava. D’inverno si riempivano le sale dell’osteria e non era raro il caso che qualcuno non trovando posto all’interno, si fermasse ad ascoltare intabarrato fuori all’addiaccio.

Naturalmente la gente ascoltava ogni discussione, ogni piccolo litigio che poteva sorgere tra gli elementi per qualche errore di esecuzione o per divergenze nell’interpretazione, così come si rendeva partecipe di ogni burla, ogni scherzo o battuta. Il concerto aveva un suo fascino e la partecipazione del paese era un po’ come un rito. Le composizioni di allora erano un po’ più complesse che le semplici canzoni di 32 battute che vennero dopo, eppure non era raro il caso in cui il mattino seguente qualcuno, fuori dal concerto, se ne andasse fischiando un pezzo nuovo provato la sera prima. Ci si ricorda molto bene di Paterlein che cantava ogni melodia che avevano in

repertorio. Ferante Codur invece sapeva magistralmente fischiarle. Sardignoli riusciva ad eseguire con monosillabi ogni variazione o contrappunto. Forniti d’orecchio o di «campana» eccezionali, cantavano o fischiavano da mattina a sera con una precisione impressionanti. S’erano formati dei critici precisi ed esigenti che potevano sostenere discussioni a buon livello e le loro tesi, pur non conoscendo la musica, erano spesse volte le più giuste.

Questo legame tra paese e concerto non escludeva nemmeno il Parroco, Don Possidio Rasori, nonostante gli elementi, cosi come un po’ tutto il paese, fossero di fede socialista. C’era inoltre il fatto che il Parroco era molto rigido in quanto a moralità dei costumi e condannava il ballo. Allora tra le due fedi non c’era dialogo. Eppure Don Rasori stravedeva per il Concerto e per la sua musica, ma il più delle volte doveva nascondere questa sua passione. Quelli del Concerto poi, quando capitava l’occasione, non risparmiavano certo il Parroco dai loro tiri mancini, anche se sapevano che prima o poi lui gliela avrebbe fatta pagare. Un anno a Pasqua, il Concerto aveva suonato alla messa di mezzogiorno. Al termine, quando Don Rasori rivolto ai fedeli che riempivano la Chiesa, stava per impartire la Benedizione, i suoi componenti, per uno scherzo combinato da Ceser, attaccarono la «Lupa». La gente si fermò disorientata. Don Rasori che era rimasto a braccia aperte, spalancò gli occhi davanti a quel tentativo di dissacrazione, borbottò qualcosa poi lacrime di commozione gli riempirono gli occhi e lasciò fare. La gente tentò un applauso. In quel periodo la miseria era veramente nera e per descriverla Gigin Mattioli soleva dire che il figlio di Giovanon Puf Puf, aspettava ogni mattina affamato che la madre gli allungasse la scodella di latte con dentro il pane o la polenta arrostita. la prendeva con le mani e andava all’attacco. Quand’era a metà si fermava all’improvviso e si metteva a piangere disperato … perché diceva che quando mangiava si accorgeva che la scodella si vuotava.

Il concerto vide la prima guerra mondiale e quei tempi confusi del dopoguerra che prepararono la strada al ventennio fascista. 1 suoi elementi partivano da casa con Cancol e la sua corriera trainata da due cavalli, più tardi con un vecchio camionciono ansimante, con i fari a carburo che Cavecchi aveva carrozzato con tavole di legno. Restavano giornate e notti intere lontani da casa, esposti e indifesi. Spesso nella balera arrivava un esagitato che voleva che suonassero «Giovinezza». Poco dopo ne arrivava un altro che voleva «Bandiera rossa». Furono spesso costretti a disperdersi tra i campi con gli strumenti in spalla per ritrovarsi solo all’alba in posti che avevano prefissati, annusando aria malsana.

Non furono poche le occasioni in cui mostrarono il loro spirito ribelle ai soprusi del nuovo regime. Per loro la musica era solo musica e non aveva colore. Continuarono a portare in tutti i paesi quelle loro splendide melodie e nemmeno il regime poteva impedire che in quelle note ci fosse anche un po’ del loro spirito libero e ribelle. Il buonumore, nonostante tutto, non si era spento nel concerto, nè le burle s’erano diradate. Giovanon Puff Puff era il bersaglio più facile degli scherzi degli altri. Non era una cima. Era servizievole e lo usavano un po’ da tuttofare. Quando suonava s’impegnava al massimo cercando sempre di non distrarsi o dimenticare qualcosa, tanto che qualche volta fu ripreso proprio per questa sua voglia di strafare che lo aveva portato nella esecuzione a leggere note che in effetti esistevano solo sul suo leggio. Infatti quella nota in più altro non era che un regalino che una mosca impertinente aveva lasciato sulla sua partitura. Egli era sì bersaglio facile, ma arrivava sempre il momento in cui riusciva a combinarne una che lo ripagava con gli interessi e i suoi bersagli erano quasi sempre proprio i due capi concerto: Palmiro e Ceser.

4. Epilogo

La seconda generazione del concerto vide ancora personaggi di spicco che fecero parlare di sè e assursero a livelli molto elevati. Erano quasi tutti allievi di Palmiro. Quest’ultimo dopo poco aver lasciato la scuola s’era messo ad insegnare. Insegnava musica e trasmetteva come per miracolo lo stile inconfondibile del concerto.

Entrarono così, man mano che qualcuno lasciava: Snaièe e Ferruccio d’la Pia col clarino. Entrò Gino Panciroli col trombone. La sua voce dava la sensazione del velluto. Quando suonava la gente smetteva di ballare per ascoltare quella splendida voce che ti entrava dentro morbida e calda, quasi che Gino col suo trombone sapesse parlare.

Entrò Rocco Melioli col clarino. Aveva come il padre Palmiro il gusto del fine e del classico. Morì ancora giovane, ma fece in tempo a lasciarci un po’ della sua musica in composizioni molto belle. Elio Panciroli alla tromba sostituì Palmiro deceduto. Era già stato da ragazzo nel concerto, ma poi la scuola lo aveva portato verso la lirica al conservatorio. Solista eccezionale in formazioni di prestigio fu accanto a Mascagni e al M°. Abbado nei migliori teatri. Finita la stagione tornava alla sua Barco e al suo concerto. Ha scritto musica sacra e musica sinfonica. Ha scritto per concerto e per Banda. Ha musicato commedie. E’ tutt’ora vivente e ad 82 anni dirige concerti con l’entusiasmo di un ragazzo. Ogni sua composizione ha il supporto di una eccellente tecnica e di una profonda cultura musicale.

Della seconda generazione fu Tienno Pattacini col quartino; egli, dopo un certo periodo, passò ad un’altra formazione musicale. Prima degli anni quaranta formò la sua orchestra con la quale affrontò la musica leggera che s’imponeva, affermandosi in campo nazionale. Valente direttore ed eccellente compositore, incise per varie case discografiche e la sua carriera raggiunse vette eccelse. Tra le tante sue composizioni, vogliamo ricordare «Battagliero» che è il suo pezzo più popolare e che ancora resiste al tempo.

A Tienno va riconosciuto il merito di aver portato ancora avanti qualcosa di quella vecchia musica del concerto e di aver mantenuta la fama che aveva conquistato Barco.

A Tienno Pattacini è legato il battesimo della «Lupa». Quando Cesare l’aveva portata alle prove, aveva distribuito la musica e il concerto aveva incominciato a suonarla. Prima della metà qualcuno si era fermato. Piú avanti si fermò qualcun altro finchè Palmiro fece segno di smettere. Qualcuno brontolò con Cesare chiedendo che razza di musica fosse e che insomma non era poi un gran pezzo. Cesare sulle prime non si rese conto e non riuscì a spiegarsi del fatto, poi senza scomporsi, calmo e per nulla offeso, raccattò la sua musica e se la mise via.

Nessuno più ne riparlò. Qualche mese dopo Tienno era andato con i «Cantoni», una banda della bassa parmense che faceva concorrenza a quella dei «barcaroli». Il Concerto ebbe un giorno occasione di passare da un paese dove quel complesso suonava. Si fermarono per ascoltarli. Tiennio li vide arrivare e siccome s’era fatto dare da Cesare la musica, fece attaccare la «Lupa». I Barcaroli si guardarono l’un l’altro stupiti e meravigliati di quel motivo e di quella musica. Quando il pezzo terminò Tienno li salutò con la mano e ammiccò a Cesare, che sbottò rivolto ai suoi colleghi: «Razza di somari … quella è la musica che non avete voluto suonare». La verità è che la «Lupa» presenta notevoli difficoltà sulle quali qualcuno non ce l’aveva fatta e aveva preferito dire ch’era un «Pasticcio».

Il tramonto del concerto di Barco coincide con l’inizio della II guerra mondiale. La sua ultima apparizione avviene, quando ormai si stava sciogliendo, in occasione di un triste evento. Infatti nel 1941, la sua musica avvolge per l’ultima volta le strade di Barco ed accompagna il corteo funebre di uno dei suoi migliori interpreti: quel Cesare Panciroli che due giorni prima era perito in tragico incidente insieme al figlio.

Questa sua musica non fu solo fenomeno sociale e culturale, ma fu fenomeno nel senso più spettacolare della parola. Ad essa si interessarono critici e cultori.

Ma cosa c’era in quella musica paesana che era riuscita a incuriosire e a scomodare quotidiani del calibro del «Corriere della Sera». Cos’era quella sorta di magia, quell’incanto, quel feeling che quella musica creava con chi l’ascoltava. Di tutto quello che abbiamo sentito c’è una frase che ci è rimasta impressa: «C’è musica suonata con la testa, con la tecnica. La musica di Barco è suonata col cuore».

Ci era sembrato un luogo comune, come una frase fatta e non riuscivamo a capire. Allora ci spiegarono con un esempio: «Se tu prendi un pezzo della musica di Barco e la fai suonare a solisti validi, tela suoneranno perfettamente e l’ascolto sarà gradevole. Se la stessa musica te la suona il concerto, probabilmente lo farà con meno precisione, ma l’ascolto avrà un gusto, un sapore diverso: il sapore dell’anima». Forse quella magia era tutta qui. L’avvento della Radio e il suo propagarsi porterà con sè un modo nuovo di fare musica. Si affacciano alla ribalta formazioni musicali più «leggere»., con nuovi strumenti. Le stesse composizioni che già dalla Lirica si erano alleggerite nelle operette prima e poi nei Valzer Viennesi, si trasformeranno ancora con le canzonette. Le case editrici musicali renderanno più facile il reperimento degli spartiti dei successi che lancia la Radio.

Termina l’era del concerto, l’epoca gloriosa dei nostri «grandi vecchi» che ci avevano regalato quel filone musicale irripetibile.

Nessuno di quei pezzi era mai stato depositato alla Siae dai loro autori. Lo farà qualcun altro a concerto disciolto ma i nomi degli autori non appariranno. Qualcuno dirà che: «quando canta il danaro, la musica tace».

C’è ancora qualcuno che guarda a questa musica, come al momento di passaggio tra passato e futuro, tra musica classica e musica leggera e cerca di intravvedere nelle melodie di questi nostri Grandi Vecchi dalla cultura contadina impregnata di buon senso e di buon gusto, il tentativo di rendere più accessibile, più immediata e più popolare la vecchia musica d’ascolto, portandola ad accompagnare i balli della nostra gente.

Aldo Fabbi, L’almanacco socialista, 10, 1987