Dalla Storia al Teatro: Socialismo a passo di valzer a Torino

14 aprile 2011

http://www.teatrostabiletorino.it/?action=view&table=catalog&ID=103

Per chi ha la fortuna e la possibilità di essere a Torino il 27 e il 28 maggio prossimi, potrà andare a vedere una interessante produzione toscana a partire dal mio libro omonimo, uscito nel 2006 per Libreria Musicale Italiana.

Ovviamente farò di tutto per esserci anch’io e chissà, forse ci incontriamo per scambiarci qualche idea.

Cavallerizza Reale

dal 27/05/2011 al 28/05/2011

a partire dal libro Socialismo a passo di Valzer – Storia dei violinisti
braccianti di Santa Vittoria di Carmelo Mario Lanzafame
drammaturgia Giuseppe Di Leva
con Silvio Castiglioni, Sara Donzelli
coro e musicisti da definire
regia Giorgio Zorcù
luci Marcello d’Agostino
Accademia Amiata Mutamenti
con il sostegno della Corte ospitale di Rubiera
e il contributo della Regione Toscana

Cosa hanno a che fare il Risorgimento e il Liscio? La Bassa Reggiana, prima di tutto, una terra sanguigna e vitale, dove a Santa Vittoria, tra la fine della dominazione austriaca e l’unificazione dell’Italia, nascono il ballo liscio, da gruppi di violinisti braccianti, e le prime forme di cooperativa, avvisaglia del futuro movimento socialista. Quasi un blues del Nord, il Liscio nasce dalla musica dei violini, e diventa presto la colonna sonora del socialismo, che si diffonde nelle campagne insieme alla musica del proletariato. I balli tradizionali in Romagna erano di antica origine popolare e non prevedevano il contatto tra ballerini. Il Valzer, ma anche Mazurca e Polca, esattamente come il Liscio, sono autentiche rivoluzioni del costume, che la Chiesa bolla come “insano vizio” che induce i ballerini al peccato. Luogo deputato per il Liscio è il Festivàl, una struttura di legno e tela juta con cui si allargavano le osterie verso l’esterno, dove si proponevano drammi musicali e varietà con trasformisti, ipnotizzatori e cantanti. Sono queste le serate delle nascenti cooperative, delle prime riunioni ed assemblee politiche. Socialismo a passo di Valzer dipinge l’affresco di un popolo che lavora, lotta, si diverte, per il quale la nuova musica e i nuovi balli di coppia diventano l’espressione della voglia collettiva di avere un corpo civile e politico nella società.

ore 20.45


“BATTAGLIERI! storie di liscio emiliano”, è finalmente uscito

9 aprile 2011

Ecco finalmente Battaglieri!, storie di liscio emiliano, editato da Clueb.

Potete ordinarlo presso il negozio online della casa editrice oppure nella vostra libreria di fiducia.

Qui il link del negozio virtuale di Cleub

http://www.clueb.com/servlet/ParseHtml/html/index.html?url=/html/varie/novita.jsp

Buona lettura!

ps: ovviamente attendo commenti, critiche, suggerimenti.


Prima bozza finita

10 Maggio 2010

Finalmente dopo mesi di lavoro ho completato la scrittura della prima bozza (circa 240 pagine in formato elettronico). Adesso la stanno leggendo dei “lettori professionali”.

Sono soddisfatto perché penso di avere colpito alcuni obbiettivi: la ricostruzione di un  paesaggio sonoro costituito prima di violini e “violoni”, poi di complessi a fiato e, più tardi, di fisarmoniche e “jasband”; la progressiva emersione della figura del musicista e suonatore moderno; la strutturazione di uno specifico settore di intrattenimento danzante, con i suoi diversi attori; i contributi dei singoli personaggi che entrano in scena in diversi momenti…

In più vi sarà una parte costituita di tabelle che cercano di sistematizzare la diffusione e il radicamento di organismi musicali, bande, scuole, complessi, orchestrine in zona.

Al momento l’indice provvisorio è il seguente:


Cap1. I suonatori tradizionali

Cap2. Battaglieri

Cap.3 Intermezzo urbano

Cap. 4 Fanfare e fiati tra formaggio e ferrovie

Cap.5 Un nuovo secolo

Cap.6 Dentro la modernità

Cap.7 Le memorie del liscio: pout pourri polifonico

Spero nelle prossime settimane di dedicarmi un po’ di più a questo blog.

A presto


Suoni di pianura

19 settembre 2009

di Alberto Lovatto

Qui di seguito sono raccolte, più che la cronaca, alcune riflessioni che hanno preceduto e seguito i lavori del pomeriggio di studi organizzato dalla Regione Piemonte e dalla Provincia di Vercelli in collaborazione con l’Istituto e la Soms di Villata intitolato “Suoni di pianura. Canti di risaia, bal a palchèt, mandolinistiche, bande musicali e suonatori di jazz”. L’incontro si è svolto, sabato 17 aprile 1999, nel salone della Società operaia di mutuo soccorso di Villata con relazioni e interventi di Emilio Jona, Roberto Leydi, Giovanni Barberis, Arnaldo Colombo, Alberto Lovatto, Guido Michelone e Luigi Attademo.

Introducendo i lavori ho proposto una evocazione letteraria tratta da “Le vie dei canti” di Bruce Chatwin: “I miti aborigeni sulla creazione narrano di leggendarie creature totemiche che nel Tempo del Sogno avevano percorso in lungo e in largo il continente australiano cantando il nome di ogni cosa in cui si imbattevano – uccelli, animali, piante, rocce, pozzi – e col loro canto avevano fatto esistere il mondo. Le tracce lasciate dalle ‘creature totemiche’ costituiscono quel dedalo di sentieri invisibili che coprono tutta l’Australia, e che gli europei chiamano ‘Piste del sogno’ o ‘Vie dei canti’ “.

Trovo affascinante l’immagine di un territorio solcato da un reticolo di percorsi di memorie e pensieri che creano e delimitano i territori e le esistenza. “Suoni di pianura” viveva un po’ di questa immagine, del desiderio di ricomporre le vie dei suoni e dei canti che hanno solcato la pianura: territorio segnato da incroci e confluenze, luoghi dell’incontro di voci, gesti, pensieri e memorie. Una evocazione letteraria che, sul piano del metodo, si nutre dell’idea-progetto di dar senso ad una ricerca musicologica che sappia muoversi non già a partire da un comparto specifico della produzione musicale, ma dallo studio del rapporto fra l’uomo e la musica, a tutto tondo, entro un territorio dato. Una sorta di piccolo ma sostanziale rovesciamento di prospettiva. La pianura con i suoi sentieri, le sue strade, nei secoli solcate da una infinita catena di vicende umane: emigranti della montagna in cerca di lavoro, pellegrini sulla via francigena, ambulanti, suonatori, contadini che a San Martino lasciano la cascina, mondine per la monda, il trapianto, la raccolta. Ognuno di loro portando con sé non solo merce, braccia, lavoro, ricchezze o fame, ma anche suoni, canti, memoria, cultura, aprendosi ad una rete ampia di scambi che, per la parte più recente di questa storia, richiamano, come nel sottotitolo dell’incontro, “Canti di risaia, bal a palchét, mandolinistiche, bande e suonatori di jazz”.

La pianura vercellese è soprattutto risaia: terra d’acqua protagonista delle prime lotte contadine, dell’associazionismo, della mutua socialità, luogo ed occasione per la nascita e la elaborazione di musiche e canzoni. Nelle cascine, nelle piazze e nei locali pubblici, nei mercati e nelle feste di paese si sono incontrati e formati cantori e musicanti che hanno imparato a coniugare i suoni della propria terra con quelli della gente che la attraversava; che hanno saputo dare nuovo respiro alla musica di più antica tradizione legandola con i suoni che il presente della storia portava al loro orecchio.

Spesso le specializzazioni musicologiche operano costruendo barriere che, se hanno forse una qualche radice nel modo di operare di alcuni musicisti e compositori, non trovano però alcun riscontro nella modalità di fruizione del prodotto musicale. La “gente” ascolta generi musicali diversi, utilizza la musica in contesti diversi, ne accetta le differenti funzioni senza porsi problemi di coerenza.

Roberto Leydi in un suo libro, denso di evocazioni, “L’altra musica”, del 1991, auspicava per l’etnomusicologia il ruolo di “disciplina dedicata a osservare, con propri principi e propri metodi, in modo specifico, i fenomeni musicali del mondo rimasto estraneo, o marginale, rispetto alla musica d’arte occidentale (e, quindi, anche le manifestazioni di nuova creatività popolare, i processi di contaminazione e tutte le manifestazioni musicali legate alla cultura di massa) , ma anche quello di stabilire una collaborazione attiva con i musicologi, nell’impegno di rimodellare la storia della musica come storia della musica nella cultura dell’uomo”. Questa la prospettiva di metodo di “Suoni di pianura”, che ha visto a confronto studiosi di formazione ed interessi differenti.

È evidente che un “pomeriggio di studi” non può che evocare un insieme così vasto di oggetti e soggetti, ma quello di Villata è stato e voleva essere in un qualche modo un incontro d’avvio: l’inizio di una serie di incontri fra studiosi che si occupano di “suoni di pianura” che, pur muovendo da approcci ed interessi specifici differenti, hanno in comune l’attenzione per un determinato territorio e la voglia di confrontarsi e di collaborare.

E per quel che attiene il territorio conviene tracciare dei confini. La “pianura” presa in prima istanza sotto osservazione a Villata è rappresentata da quel triangolo di terra chiuso fra Sesia, le colline del Biellese e del Canavese e Po. Un triangolo di Piemonte ricco di canti di risaia, di bande musicali, di jazzisti di prestigio, ma anche terra di grandi burattinai ed ambulanti che vi hanno trovato radice e che l’hanno percorsa. Un triangolo chiuso fra due fiumi ma strettamente collegato con la cultura della montagna piemontese da un lato e, dall’altro, con il Novarese e la Lomellina che, fino al Ticino, sono ancora “terre d’acqua” a pieno titolo.

L’iniziativa di Villata trovava contesto nel programma ampio e consolidato della rassegna “Terre d’acqua” che Regione Piemonte e Amministrazione provinciale di Vercelli da qualche anno stanno costruendo, ed in particolare con la rassegna “Radici. La musica nelle terre d’acqua”, aperta, quest’anno, con il concerto di Gianni Coscia e Gian Luigi Trovesi, che da solo, proprio per la densità delle evocazioni che la musica del duo bergamasco-alessandrino, sa mettere in gioco, valeva quale indubbia dichiarazione programmatica (“Radici”, titolo del cd del duo è diventato infatti, non a caso, anche il titolo della rassegna). A seguire, nel programma, una serie varia di iniziative musicali: dal concerto de Le Vija alla Fanfara dei Bersaglieri, dal Coro Airone al Ciar d’la Valara, da I Celti al Quartetto Tamborini.

A fianco di tutto questo le iniziative legate al restauro della pellicola di “Riso amaro”, con una mostra ed alcune pubblicazioni di cui si darà conto nella rubrica “Recensioni e segnalazioni” del prossimo numero.

Il pomeriggio di studi “Suoni di pianura” era dedicato a Sergio Liberovici, musicista e studioso che non solo ha dedicato molta attenzione, con Emilio Jona, al canto di monda della pianura vercellese ma che, da musicista di formazione colta, ha saputo spesso, e significativamente, mettere in relazione mondi musicali diversi.

In conclusione veniamo alla cronaca degli interventi, resoconto più degli argomenti e degli ambiti toccati che del merito delle cose dette, visto che si prevede la pubblicazione degli atti.

Emilio Jona, attraverso gli ascolti di una testimone registrata con Sergio Liberovici, ha offerto una panoramica densa del repertorio del canto di monda.

Roberto Leydi ha messo a confronto repertori diversi – canto di risaia, canzone militare e repertorio dei ragazzi nelle colonie estive (oggetto di uno studio di Franco Castelli) – accomunati da condizioni e modelli comportamentali comuni (la partenza, la vita collettiva, il ritorno) che facilitano e motivano “travasi” di moduli testuali e musicali.

Guido Michelone ha affrontato la storia del jazz vercellese, con una serie, per necessità, breve di ascolti, che da sola è però bastata a stimolare il desiderio di ulteriori approfondimenti e sviluppi di ricerca.

Giovanni Barberis ha invece parlato delle orchestre da ballo, con tutto il coniugarsi di esperienza umana e sociale che la vita dei suonatori portano alla memoria.

Luigi Attademo, seguendo alcune piste di ricerca propostegli da Angelo Gilardino, di cui è allievo, ha offerto spunti e visioni in merito alla produzione colta di musiche per strumenti a plettro e a pizzico.

Ad Arnaldo Colombo il compito di spostare l’attenzione sulla parola, sul dialetto, sulla lingua scritta e parlata dei luoghi, tra terminologie specialistiche e poesia dialettale.

Chi scrive, presente all’incontro oltre che come coordinatore dell’iniziativa anche come relatore, ha parlato di bande musicale e di musica per campane.

Assenti giustificati Enrico De Maria, che aveva il compito di condurre, e Cesare Bermani, cui era stato chiesto di richiamare in maniera specifica la dimensione del canto in riferimento stretto a lotte e conflittualità sociali.

Nel corso della manifestazione hanno preso la parola, Umberto Oga, attivo presidente della Soms di Villata, e l’allora assessore alla Cultura della Provincia di Vercelli, Giorgio Orsolano, che di questa e dell’insieme di iniziative di “Terre d’acqua” che gli han fatto da contesto, è stato ideatore e promotore.

tratto da

http://www.storia900bivc.it/pagine/suoni.html


osteria del fojonco

18 settembre 2009

(introduzione) di ORFEO BOSSINI

C’è chi sostiene che il fojonco sia una specie di faina, un razziatore di pollai che si nutre del sangue delle sue vittime. Altri, come lo scrittore Giuseppe Pederiali, secondo me più nel giusto, assicurano che tale bestia abbia piuttosto le sembianze di un goffo rapace; un uccellaccio a tre zampe, con una passione irresistibile per il buon vino. Non ci sono prove incontrovertibili della sua esistenza, ma alcuni indizi sì: racconti di cacciatori e contadini che parlano di strani nidi intrecciati con foglie di vite e fronde di olmo, o di inspiegabili sparizioni di lambrusco dalle cantine. Insomma, come dicono i vecchi della bassa, fole, racconti da osteria, mentre la nebbia, fuori, ammutolisce la campagna.
A Santa Vittoria di Reggio Emilia, il gradino più basso della piramide sociale è occupato dai braccianti, i proletari della terra. Il bracciante d’inverno sente i morsi della fame, perché il campo non ha bisogno che di poche cure, e il lavoro scarseggia. Si mangia polenta, solo polenta; mai un boccone di carne. E si muore di pellagra. La morte è una presenza costante e il suono di una marcia funebre copre tutti i giorni la strada che dalla chiesa porta al cimitero. E allora, per guadagnare una dignità umana, ci si inventa di tutto, anche un nuovo modo di vivere e di lavorare. Suonare quando il campo è addormentato, durante le feste di carnevale, o per quelle dei santi; suonare per tutte le ricorrenze e con un unico scopo: costruire una vita migliore.
Questa è anche la storia di Arnaldo Bagnoli, violinista virtuoso, un uomo semplice e nobile al tempo stesso. Arnaldo faceva il liscio, la musica da ballo peccaminosa ed invisa ai preti, perché i giovani la ballavano allacciati, piroettando in turbini di desiderio e di carezze celate agli sguardi severi dei genitori. Oggi dici liscio e pensi subito a certi intrattenimenti un po’ bizzarri, ma una volta era una cosa diversa, non una cosa più seria o più raffinata, semplicemente diversa. Il liscio era la musica nella quale una generazione di uomini di fatica riconosceva il proprio emblema. Come ricorda Carmelo Mario Lanzafame, era la musica del socialismo, che tumultuoso a passo di valzer si diffondeva nelle campagne, di pari passo con la nascita delle prime cooperative. Era la musica che si ballava nei festival, nelle balere: luoghi magici, che impresari stravaganti trasportavano in blocchi nella campagna, e che poi si montavano con l’unico scopo di far innamorare le persone.
Ti pare di vederli, i festival; se ne stanno lì, in mezzo al niente, come navi che solcano mari oscuri, illuminati dalla calda luce dell’acetilene. Pavimenti di legno, lunghi anche settanta metri, tirati a lucido come i parquet dei signori per fare scivolare meglio le scarpette dei ballerini. L’orchestra al centro della sala e tutt’intorno le coppie a volteggiare. Valzer, mazurke, polke, e tanghi; un ballo dopo l’altro. E poi un preludio d’opera, di quelli che si ascoltano dagli organetti o dalle bande di paese, per rompere il ritmo della serata e per fare riposare i danzatori. Gli sguardi appassionati, i sorrisi; la danza che cura con l’oblio la pesantezza della vita.
Se le musiche di Arnaldo Bagnoli, seppur in frammenti, sono tornate alla luce come tesori nascosti che il tempo aveva seppellito nella memoria, il merito è di Andrea Bonacini, presidente di Shéhérazade. Gli arrangiamenti di Davide Bizzarri e il lavoro degli altri membri del gruppo, di Riccardo Tesi e Claudio Carboni, hanno fatto il resto. Ci siamo divertiti a giocare con la tradizione, ad alternare brani in versione filologica ad altri più creativi, in uno sforzo di elaborazione che nasce da un confronto costante. Mi piace poter dire, adesso che tutto è terminato, che questo lavoro non è la fine di un percorso ma un nuovo inizio, un’esperienza che non ha nessuna vocazione antiquaria, ma che vuole fare del passato un presente da rilanciare nel futuro.

Orfeo Bossini


storia sociale e liscio emiliano

17 settembre 2009

Lanzafame, Socialismo a passo di Valzer

Socialismo a passo di valzer, storia dei violinisti braccianti di Santa Vittoria

Carmelo Mario Lanzafame

Lucca: LIM, 2006, Euro 30 ISBN 88-7096-436-3  Vai alla home page

dalla Prefazione

Qualche tempo fa mi capitò di passare per Santa Vittoria, frazione di Gualtieri, situata nella parte “bassa” della provincia di Reggio Emilia, quella parte che verso nord è bagnata dal Po. All’interno di palazzo Greppi, nel centro del paese, un gruppo di appassionati ricercatori locali aveva realizzato una mostra: pannelli, fotografie, didascalie, cimeli.
La mostra non aveva il solito carattere paesano, né tanto meno si presentava come il prodotto di un interesse folkloristico rispetto la storia e le famiglie locali.
Il tema trattato era la tradizione locale di violinisti e contrabbassisti che avevano esercitato il mestiere di suonatori tra autodidattismo e professionismo. Una tradizione che aveva coinvolto numerose famiglie locali, per almeno tre generazioni, a partire dalla seconda metà dell’800 fino alla fine della seconda guerra mondiale. Erano presentati spartiti di composizioni scritte a partire dagli anni venti del secolo scorso: valzer, polke, mazurche, fox-trot, tanghi e one-step accomunavano queste famiglie di suonatori di musica da ballo con un sentire diffuso e condiviso dall’intera comunità locale. Il liscio di questi musicisti, veniva eseguito da loro stessi in complessini chiamati “concerti” e formati da cinque archi: tre violini, una viola e un contrabbasso.
Rimasi colpito non solo dall’originalità del tema e dalla modalità di allestimento, ma anche dalle sollecitazioni e dalle domande che le foto di queste famiglie rimandavano. Al di là dei nomi e delle note biografiche, degli spartiti e delle composizioni, cercavo di capire come fosse stato possibile che in un villaggio allora sperduto e all’apparenza privo di storia, fossero all’improvviso apparsi suonatori e musicisti. Forse erano i nipoti di suonatori girovaghi, di zingari o di ebrei in fuga che avevano trovato in questo territorio rifugio? O erano gli allievi di un musicista proveniente da una qualche diaspora mittel-europea? E poi, come mai tutti il violino (a parte raramente le chitarre per le donne), e non, come spesso accadeva, anche la fisarmonica, un clarinetto, un qualche mandolino? Domande, come può notare un esperto, frutto di una sostanziale ignoranza del fatto musicale e della storia della musica popolare.
Passò qualche mese, nel quale le domande rimasero a sonnecchiare sulla scrivania.
Poi incontrai Andrea Bonacini, amico da lunga data, presidente di Sheherazade, allora centro studi musicali. Parlando del più e del meno, gli ricordai della mostra. Venni così a sapere che in realtà, non solo già era stato prodotto e distribuito un cd con alcuni brani del repertorio di una di queste famiglie, ma esistevano scritti, più o meno strutturati, che avevano cercato di approfondire il fenomeno. Andrea mi fece avere un interessante dattiloscritto, insieme alla copia del catalogo della mostra che non avevo trovato in loco.
Il dattiloscritto, firmato Bruno Gabbi, era in realtà il terzo volume delle Memorie storiche della parrocchia di Santa Vittoria, e conteneva, all’interno di pagine fitte di informazioni e appunti tra erudizione e cronachistica, il capitolo “La terra e il paese dei violini e degli strumenti ad arco”.
In queste quaranta pagine, viene ricostruita, sulla scorta di un singolare intreccio di memoria individuale (lo stesso Gabbi in gioventù partecipò ad alcune orchestrine locali), memoria collettiva raccolta in vari modi (come venni in seguito a sapere, l’autore aveva intervistato personalmente e aveva scritto a numerosi familiari dei suonatori vittoriesi), frammentari approfondimenti archivistici, sia la presunta origine “esotica” dei quintetti vittoriesi, sia, questo particolare importante, le diverse formazioni delle varie famiglie.
Questo capitolo, nella sua integrità, il lettore lo troverà allegato alla ricerca, perché credo sia un ottimo esempio di documento ibrido, che disvela e sottace insieme, alcune importanti indicazioni su questa tradizione musicale. La sua peculiarità infatti sta proprio nel partire da premesse cronachistiche – le memorie della parrocchia locale, ricostruite, attraverso un mix di memorie personali, memorie collettive del paese, richieste di documentazioni a eredi, spoglio di documentazioni varie mai però citate – ricostruite, dicevo, non tanto le origini, le dinamiche del fenomeno, le modalità di diffusione, bensì la composizione delle formazioni, ponendo una forte attenzione sull’aspetto familiare dei concerti. Le famiglie dei suonatori, chiamate dall’autore “casati”, Bagnoli, Carpi, Lambruschi, Ghidorzi, Boiardi, Menozzi, Cantarelli, Lanzi, De Carli, Simonazzi, Donelli, Gabbi, in modi differenti e con differente continuità, vengono rubricate secondo uno schema documentale ma senza quelle necessarie cautele, avvertenze, modalità dello storico. Non solo. Il documento si propone innanzitutto all’attenzione della stessa comunità, nasce cioè come tentativo di restituire ai più giovani del paese le memorie degli anziani. Il pubblico cioè di Gabbi è appunto la comunità del paese, che anche negli stessi “scòtmai” (soprannomi collettivi) è chiamata a riconoscersi.
Le evidenti rimozioni, ad esempio l’ostilità continua della chiesa o l’assenza di alcuni nominativi scomodi per le compromissioni con il fascismo, non deprezzano lo sforzo ma aiutano noi contemporanei a collocare tale documento nella sua giusta dimensione.
La scelta però di riproporlo in appendice è anche funzionale a coprire una delle tante lacune di questo lavoro.
A differenza di Gabbi e di Gianluca Torelli, curatore della mostra e del suo catalogo insieme al gruppo vittoriese di ricerca e valorizzazione di questa “tradizione”, da lui e da altri animato, non solo non ho potuto, se non in minima parte, approfondire il percorso di ricerca sulle memorie superstiti e sulle eventuali documentazioni private rimaste, ma anche gli obbiettivi di questa monografia sono di diverso ordine.
Il problema infatti è che sia il capitolo di Gabbi, sia le ricerche compiute per allestire la mostra avevano, tra i vari pregi, il limite di risultare, alla fine, parziali e aneddotiche, non organizzando il sapere potenzialmente attingibile, e anche attinto, in un quadro che connettesse lo specifico territoriale a un contesto più esteso, senza tenere conto dei contributi della ricerca specialistica, sorvolando sulle modalità del lavoro storico.
Non voglio essere frainteso.
Se risultati si troveranno nel presente lavoro, per quanto modesti e se si vuole parziali, questi sono semplicemente il risultato possibile dell’incontro tra il necessario lavoro d’archivio e la passione di chi mi ha preceduto e di chi mi ha aiutato, anche nell’identificare tracce e segnali in una potenzialmente infinita bibliografia sul fenomeno chiamato liscio, nel quale si colloca compiutamente questo studio di caso. Non è falsa modestia.
In realtà in Italia lo studio di fenomeni quali le origini e gli sviluppi della popular music, seppure ben avviati altrove, basti solo pensare alla tradizione angloamericana o a quella francese, stentano a decollare, il più delle volte pubblicati in riviste specialistiche o in qualche disperso periodico locale. La stessa sensibilità degli storici italiani nell’affrontare la vischiosità di temi che intrecciano la storia locale con la storia sociale e culturale del paese, lascia scoperto il campo a interventi tutto sommato generalisti, strutturati cioè sull’osservazione e l’analisi di fonti ufficiali e nazionali, oppure inquadrati secondo i tradizionali occhiali idealistici che dividono, ad esempio, la musica in colta o non colta (non a caso rinuncio a usare l’aggettivo popolare), tralasciando attori sociali, contesti sociopolitici, produttori – ebbene sì i musicisti producono una specifica merce -, venditori e imprenditori, luoghi e spazi dell’intrattenimento e del tempo libero.